“L’assistenza è un’arte, e se deve essere realizzata come un’arte, richiede una devozione totale e una costante preparazione, come per qualunque opera di pittore o scultore; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano il tempio dello spirito di Dio. È una delle Belle Arti, anzi, la più bella delle Arti”.

Ho sempre fatto mie queste parole, me le ripeto ad ogni mio inizio turno e dal momento in cui arrivo al lavoro in macchina nel tragitto ascolto della bella musica, rilassa la mente e mi predispone bene a fare spazio dentro di me per essere pronta ad accogliere tutto quello che accadrà.

Raggiungo gli spogliatoi, indosso la mia divisa e incontro gli sguardi dei colleghi in corridoio e del personale presente in struttura, per ognuno un sorriso e un saluto. Prima di entrare in reparto a seconda della zona indosso i dispositivi di protezione idonei e varco la soglia del reparto. Oggi sono al primo piano.

Beh, in realtà ho sempre associato il reparto ad una grande casa, ogni stanza un familiare, perché quando percorro il corridoio conosco perfettamente ogni persona presente nella stanza e ne conosco abitudini e preferenze.

La giornata è scandita da tempi di assistenza abbastanza precisi, seppur con la giusta elasticità, per far si che i residenti abbiano ritmi e consuetudini di vita più adeguate possibili alle loro esigenze. Lettura consegne, ci prepariamo e diamo inizio alla giornata.

Sbuca dalla porta Giovanni, come ogni mattina ancora assonnato viene verso di noi per prendere la sua salvietta e cominciare a lavarsi, in autonomia come ha fatto da sempre da 70 anni: “Buongiorno Giovanni. Se hai bisogno chiamami ” (gli piace farsi dare del tu!), lui risponde a tono basso quasi a non voler disturbare, accenna un sì con il capo e ritorna in stanza.

“Buongiorno!!!!!! Buongiorno!!!!”

Un buongiorno per ogni residente, i buongiorno calibrati a seconda della persona e della situazione, a seconda di chi ti vuole chiara ed energica e per chi non è stato bene e teneramente ti avvicini per rassicurarlo, quei Buongiorno che irrompono nelle notti passate a volte insonni e non vedeva l’ora di vederti arrivare perché è stanco di stare a letto.

“Ho pregato Padre Pio e sei arrivata”. Così mi accoglie Maria nel suo letto, lei una “nonnina” dall’animo sempre verde e fedele devota…le sorrido e le comunico che oggi ha una bella e rigenerante doccia, è molto felice.

Attenzione e ascolto, mi sintonizzo su lei, il suo canale, ne percepisco movimenti più spediti e quelli meno, registro il suo “non verbale”.

“Sai, non mi ricordo il tuo nome”, siete in tanti e poi con queste mascherine non riesco a ricordare tutti, mi dispiace, che penitenza che state facendo”.

“Stai tranquilla Maria! Questa serve a proteggere tutti voi e noi, sono certa che presto torneremo a guardarci liberamente”.

Maria è una persona molto bella, una simpaticona, ad ogni mia battuta mi risponde a tono e con una ancora più divertente, mentre la insapono lei intona un ” ‘O sole mio!!! Cantiamo insieme come due tenori dell’opera!

“Che belle carezze, grazie” afferma Maria dopo averla vestita, profumata e pettinata. Le accarezzo il volto e io ringrazio lei.

Le carezze, ho riflettuto molto sull’ affermazione di Maria, non parlava solo di carezze fisiche, ogni attenzione è una carezza, ricevere carezze è indispensabile per sentirsi amati…. ricevere queste parole mi rende sempre felice e orgogliosa di aver agito con amore e di essere percepita così.

Cambio stanza e incontro Lucia, finalmente sorridente…l’avevo incontrata durante un suo isolamento precauzionale…ho trascorso con lei una mattinata di una domenica di ottobre in pieno sconforto, l’isolamento, la paura la facevano da padrone e non riusciva più a vedere uno spiraglio di luce…pianto su pianto. Mi ero seduta accanto a lei, sapevo che in quel momento non aveva bisogno di mangiare, vestirsi o altro ma avrebbe solo voluto sfogare tutta la sua frustrazione e la paura… sono rimasta con lei, come una mamma che tranquillizza la sua figlioletta, le parole di sostegno, la tenerezza della comprensione e lo spazio emotivo per accogliere quella tristezza che dilagava mi hanno fatto capire che noi operatori dobbiamo essere anche molto bravi ad “accogliere” ma altrettanto bravi nel metabolizzare quei sentimenti che ci si riversano dentro inconsapevolmente e che toccano in noi corde particolari e vissuti dolorosi.

In quel momento sono diventata per Lucia una mamma, una figlia, una persona che le voleva donare la Cura, farle sapere che a lei ci teneva davvero e accettava la sua tristezza e la sua paura.

Lucia è uscita dall’isolamento ed è tornata a sorridere ed io sono grata di aver avuto il privilegio di essere stata lì, al suo fianco nel suo momento più buio.

Avrei tantissime storie da raccontare, esperienze ricche di umanità, storie a lieto fine ed altre un po’ meno…purtroppo questo periodo storico ci sta costringendo a riformulare approcci e modi di fare, ma mai nessuna mascherina o nessuna protezione potrà togliere l’amore che doniamo a chi si affida a noi e lo fa in completa fiducia.

La tragedia della pandemia ha allontanato tante famiglie dai loro cari ma vorrei rivolgere a loro un piccolo pensiero:

“Nella vostra mamma vedo la mia, nel vostro papà c’è il mio, i vostri occhi d’amore rivolti a loro possano proiettarsi nei miei, le vostre mani possano asciugare le loro lacrime tramite le mie, possa portare a loro la rassicurazione che voi vorreste dargli, state tranquilli, noi li amiamo davvero, ma non perché è il lavoro che ce lo chiede ma perché in loro rivediamo l’umanità più fragile e vera, quella che merita protezione e amore infinito”.

 UN OPERATORE DELLA FONDAZIONE ELISABETTA GERMANI